Agnese Moro e la giustizia riparativa

Diverse realtà associative della nostra città hanno organizzato un incontro molto significativo sulla giustizia riparativa. Al centro della discussione è emerso come la giustizia retributiva non sia sufficiente a garantire gli obiettivi di riabilitazione della persona.

Particolarmente toccanti sono state le parole della figlia di Aldo Moro, che, quasi in chiusura, tra le altre cose ha dichiarato: “Mi ha fatto schifo sapere come hanno vissuto in carcere le persone che hanno ucciso mio papà.”

Il percorso della giustizia riparativa nasce dalla possibilità di un incontro che, a primo impatto, può sembrare impossibile. Tuttavia, è un incontro che prende vita dall’interesse sincero per il dolore altrui, una rarità da trovare. Non si tratta di un confronto imposto, ma di una scelta libera tra persone accomunate da un dolore profondo, da una ferita ancora aperta. L’interesse a affrontare da questo dolore parte da figure di mediazione che offrono questo spazio e questa possibilità come abbiamo appreso dai relatori.

Ecco alcuni appunti presi dal discorso della figlia di Aldo Moro, che ha condiviso il difficile cammino intrapreso incontrando chi ha avuto un ruolo nell’uccisione di suo padre:

“L’assenza di chi non c’è più è subito evidente: una persona amata se ne va e non ritorna. Ma il vero impatto di quella perdita si svela lentamente, giorno dopo giorno, mentre ci si rende conto di quanto di sé sia stato strappato via. La vita di chi resta cambia per sempre, rimane immobilizzata in un tempo che non passa. Sebbene io abbia continuato a vivere una vita apparentemente normale, in realtà una parte di me è rimasta ferma tra il 16 marzo e il 9 maggio del 1978, quando tutto è avvenuto. È come se quell’evento si ripetesse ogni giorno, invadendo il presente e impedendo di guardare con serenità al futuro.

Il contatto con l’irreparabile lascia dietro di sé sentimenti terribili: rabbia, odio, rancore, disgusto, dolore e senso di colpa. Mio padre non è stato ucciso subito; è stato tenuto in ostaggio per 55 giorni, durante i quali abbiamo cercato di fare qualcosa per riportarlo a casa, ma senza successo. Questo fallimento ha lasciato in me un senso di sconfitta che porto ancora dentro, una responsabilità che non posso ignorare.”

“Per molti anni ho pensato che il silenzio fosse la soluzione migliore, che avrei potuto tenere tutto dentro di me per non far soffrire altre persone, soprattutto i miei figli. Credevo che il mio dolore sarebbe morto con me, senza contaminare le generazioni future. Tuttavia, mi sono resa conto che quel silenzio urlava lo stesso, e che i miei figli, anche senza parole, hanno comunque assorbito il peso di quella tragedia.”

“Questo percorso di giustizia riparativa mi ha fatto comprendere che il dolore di chi ha compiuto atti di violenza è altrettanto devastante e che, seppure da prospettive opposte, condividiamo lo stesso dolore. La scoperta di questa umanità condivisa mi ha permesso di sentirmi meno sola e di trovare un senso di solidarietà anche con chi, in passato, mi aveva fatto soffrire.”

“Il cammino della giustizia riparativa è stato difficile, ma anche profondamente liberatorio. Ho avuto modo di incontrare persone coinvolte nella vicenda di mio padre, di parlare con loro, di ascoltare le loro storie e di condividere la mia. È stato come aprire una finestra in una stanza chiusa da anni, lasciando entrare finalmente un po’ di luce.”

“Ho capito che il dolore condiviso, seppur diverso, può diventare un ponte verso una nuova comprensione e una possibilità di guarigione. Ognuno di noi ha portato il suo carico di sofferenza, ma insieme siamo riusciti a trasformare quel dolore in un’occasione di crescita e cambiamento. La mia vita è tornata, almeno in parte, ad essere mia.”

Enzo Salvaggio

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